martedì 18 gennaio 2011

James Blake


Lascio passare qualche minuto prima di mettermi a scrivere i miei pensieri in merito a questo album.
Cerco di svuotare la mente, il viaggio che sto facendo è lungo, ho bisogno di qualcosa che stuzzichi la mia attenzione. Sistemo l'equalizzatore e faccio partire l'album.  Silenzio e mani ferme. "Unluck" finisce di colpo ed io, infastidita dal momento di silenzio, appoggio le mani sulla tastiera.

Traccia numero due e all'orizzonte si iniziano a frastagliare spicchi di luce dalle nuvole chiare.
Unicamente le colline incorniciano quelle nuvole bianche, là in lontanza.
Spalanco gli occhi alla luce e scopro piacevolmente che c'è ancora qualcuno che canta lasciando che gli echi dei vocals si rincorrano fra quelle colline che sto percorrendo.

Trovare artisti di questo calibro è difficile al giorno d'oggi.  Ammetto che non conoscevo l'esistenza di questo James Blake. completo, ricercato, a tratti banale, ma grande arrampicatore di specchi.

La voce, a volte spezzata, sembra emulare il suono di una tromba acida nelle sue evoluzioni, mentre i synth vanno inserirsi in un elegante controtempo dalle sonorità mistiche.
Il cantato, come un moderno madrigale, sovrappone diverse tonalità della lirica, degenerando in un downtempo elettronico.

Ma è dalla quarta traccia, "Lindesfarne I" che si inizia a delineare l'intento di Blake: un piacevole nascondino tra spazi silenziosi e vuoti e riflessive liriche dalla chiara derivazione gospel.
"Lindesfarne II" è l'esplosione consequenziale del vuoto della precedente.
E' come se il treno riprendesse a correre e ogni tanto, in prossimità delle gallerie, la melodia si concentri solo sulla ritmica.

"Give my month" è una ballad scontata. voce e piano accompagnano malinconia e semplicità delle parole. sembra quasi che Blake rallenti il suo percorso roccocò di ricerca e mutamento sonoro.

E' con "To care (like you)" che riprende il percorso di ricerca con sorprendente utilizzo di pattern in 16esimi e cacofonie vocali. Parole volutamente storpiate, allungate da deelay rythm & blues.
Sdraiatevi in un prato: mettetevi a pancia in giù ed abbassate la testa per guardare attraverso l'erba di fronte a voi. Man mano che mettete a fuoco si capisce da cosa è composto: piccoli ramoscelli rotti, insetti, sassolini, fili d'erba.
Nell'insieme ciò che percepite è la verde bass line che nel sottofondo riempie l'immaginario visivo dell'udito.  Ogni elemento che compone quel prato viene messo a fuoco in maniera frenetica e distinta come i vari suoni che compongono il brano, introdotti uno a uno, miscelati con cura e parti volutamente non uguali.

"Why don't you call me" è un breve lamento amoroso. acido e confuso quanto un hangover in un periodo di sfortune di cuore.

"La distanza più corta tra due punti è molto spesso intollerabile" come avrebbe detto il buon Bukowsky, Blake, invece, scrive  "Limit to you love" dando forma ad un percorso non scontato, pregno del puro gusto di perdersi nei particolari.

L''incapacità complessiva di muoversi su una linea retta costruttiva di tutto l'album è forse la cosciente appartenenza ad un tempo moderno che, così pieno di informazioni, porta all'unione di tante (a volte troppe) sfumature espressive.
james blake rappresenta al meglio una generazione illogica di viaggiatori, di tormentati ricercatori tra synth e tradizionalisti amanti della musica.
posted by Giubia Mantellini

 
7 febbraio 2011
James Blake - James Blake
R&S Records

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